martedì 26 ottobre 2010

In viaggio

Tic tic tic. Dopo 4 mesi che i miei pensieri vengono filtrati dalla penna per la carta trovarmi di nuovo di fronte alla tastiera è strano. Ma mi sono riabituata subito. Faccio errori, cerco le lettere a volte, ma sono di nuovo veloce. Finalmente il mezzo di scrittura può stare dietro al flusso dei miei pensieri.
Pensieri: ecco uno degli ultimi che sono finiti su carta, 25 ottobre:
“Sono le 7.30 della mattina di un bank holiday, sono appena stata lasciata e cammino per il centro deserto di Dublino cantando “Mila e Shiro”: è il primo giorno del resto della mia vita.”
Non è mia, quest’ultima frase. È nel film “American beauty”. Quante frasi non sentiamo tutti i giorni, alla tv, al cinema? Frasi belle, che lo sono o lo sono potenzialmente, anche se a volte ci sembrano banali. Il problema è che quelle frasi non sono banali. Ogni frase ha il suo momento di gloria, ognuna è perfetta per un momento preciso della nostra esistenza. E ieri era il primo giorno del resto della mi vita.
Non perche non m’importi di essere stata lasciata. Mi importa eccome! Mi sento leggera, pesante, felice, disperata, arrabbiata, comprensiva. Ma non confusa. Sono il caos in questo momento, un’onda scomposta di sentimenti contrastanti, ma ben distinti tra di loro. Riesco a prenderli uno per uno, se voglio, ad osservarli. Sono solo tanti e si muovono in maniera disordinata dentro di me, ma so per ognuno di loro l’origine e il motivo.
L’origine e il motivo è lui. Come dice la mia amica, un uomo, non un ragazzo, che mi ama. O che quantomeno mi ha amato. E mi ha capito. In ritardo, ammettiamolo. Ma mi ha capito. Mi ha guardato due giorni fa, e mi ha detto quelle cose che nessuno mi aveva mai detto. Io che pensavo che a volte non mi capisse, ed invece è andato là dove pochi sono stati. È riuscito a mettere parole, frasi, su concetti che erano dentro me da tempo ma che non ero mai riuscita ad interpretare da me.
Qual è il suo punto? Mettere ordine nel caos. È da un po’ che lo dico, ma non ho mai avuto idea di come farlo. Non ho mai capito cosa volesse dire quella frase. Dico, esattamente. Che caos? Quello della mia camera con i vestiti per terra? Quello del salotto con il tabacco sparso sulla moquette? Quello del giardino con le erbacce? No, molto più semplice: quello del mio stile di vita. Lui ha ragione, lavorare a Lufthansa mi ha fatto viaggiare, scoprire posti nuovi ogni volta, nutrire la mia curiosità, ma mi ha tolto dalla realtà quotidiana. Dalla vita reale. Da una vita che forse potrebbe essere noiosa, ma che nella sua routine può dare più soddisfazione del caos.
Pensiamoci, senza contemplare l’opzione "lui". Prima di incontrarlo, lavoravo a turni, swappavo appena potevo, per poter viaggiare due, tre, quattro volte l’anno, per 15-20 giorni. Chiedevo due ore di permesso in ufficio per uscire a prendere l’aereo il prima possibile, e spesso al ritorno atterravo un’ora prima di rientrare in ufficio. E lavoro, lavoro, lavoro, alle 7, alle 13, a non so che ora. Sabato, domenica, Natale, Pasqua. Lo ammetto: invidiavo quelli che si lasciavano la tipica settimana di ferie “per riprendersi dalle ferie”. Ero curiosa, viaggiavo, mi piacevano i posti che vedevo, ma a casa ero stanca, e non avendo tempo di riposare non riuscivo neppure a fare le cose più normali fuori dal lavoro, come mettere a posto la casa, fare la spesa, lasciamo perdere uscire o la palestra! Ero così assorbita dal viaggio che non mi ero accorta di essere diventata un automa, i cui ingranaggi si attivavano solo quando viaggiavo, e passavo il resto del tempo spenta. Ma il viaggio ha una meta, una fine. Ed è quello il momento di fare di nuovo i conti con la realtà.
Mi ricordo una sera, ero in Italia, al ristorante con mia mamma e i miei zii. I miei zii mi chiesero perché non volessi stare a casa durante le festività, e io risposi che preferivo lavorare quei giorni per poter andare in ferie quando non ci andava nessuno, con i voli vuoti e i prezzi più bassi. Ma non lo dissi. Lo imposi. Ricordo la faccia arrabbiata di mia mamma quando mi disse, una volta a casa, che ero stata un’arrogante. Mi colpi come un diretto, in piena faccia. Ma non mi resi conto, quella volta, quanto stavo diventando schiava della mia passione.
Perche quella volta viaggiare mi piaceva. Erano due tre settimane, non di più, poi ritornavo a casa. E mi piaceva. Quindi ho pensato che volevo vivere in viaggio, perche l’ho detto, la mia vita era un caos, e solo in viaggio trovavo la mia dimensione.
Perciò lo feci. Lasciai il lavoro, la mia città, e partii per 4 mesi, pensando di trovare una dimensione mia, viaggiando sempre. Ma alla lunga ho scoperto che più viaggiavo e più il viaggio diventava routine: non era più quell’esotico che rincorrevo con curiosità e desiderio, era diventato vita quotidiana. Mi stupii. Mai avrei pensato che il viaggio, la più imprevedibile delle avventure, avrebbe potuto diventare una routine. Eppure lo diventò. Eccomi di nuovo sul treno. Eccomi di nuovo in marcia. Eccomi a cambiare ancora posto. Cambio, cambio, cambio. Avevo la breve illusione che mi piacesse perche i posti che visitavo erano belli, ma in più di un’occasione mi sono sentita come una cassiera del supermercato: bip, bip, bip, avanti il prossimo. Routine.
Altro pugno in faccia. Mi sembrava di aver fallito, di aver fatto il più grosso degli errori: bramare a una vita in viaggio, e scoprire che il viaggio non era quello che volevo. Non potevo ammettere l’errore. Era troppo grande. Così continuai. Avevo una meta, la dovevo raggiungere. Era ormai un semplice spostamento da un punto A a un punto B, senza a volte neppure troppe emozioni, a volte attraverso la noia, e a volte, cmq, visitando illusivi posti belli.
Arrivai in Giappone, ma non avevo quasi voglia di visitarlo. Un po’ per i soldi, è vero, ma soprattutto perche ero stanca di viaggiare. Era davvero ora di tornare a casa. Ma quale casa? Quella che avevo lasciato mesi prima? E a quale vita sarei tonata? Quella disordinata di LH? O era finalmente ora di mettere ordine nel caos?
Ha ragione lui: scappavo da una vita che non mi soddisfava, ma non posso vivere scappando. Qualsiasi vita io faccia diventerà prima o poi quotidiana. Bisogna affrontare la realtà, imparare a conviverci, e a renderla speciale in altri modi. Il viaggio stesso, preso in piccole dosi, può essere un modo. Ma anche una passeggiata in centro, una cena con gli amici, una birra in compagnia. E perche no, un nido d’amore…
Se inizierò a mettere ordine in questo caos, non posso dire che non lo farò per lui. Posso provare a mentire, ma so che non sarebbe così. In fondo, io gli avevo detto di venire a Dublino per se stesso, perche aveva bisogno di recuperare quella fiducia in se stesso che si era persa da qualche parte. Ma all’epoca lui lo fece per me. Alla fine pero, “grazie” alla mia assenza, ha dovuto trovare la forza di andare avanti da solo, e quel che era iniziato per me è finito a essere per lui. E ne sono contenta.
Per questo motivo avevo anche detto che una volta tornata le nostre esistenze sarebbero state perfette di per se, che entrambi ci saremmo sentiti soddisfatti di quel che avevamo tra le mani indipendentemente dall’altro e che solo a quel punto avremmo potuto riunirci. Quasi giusto. La sua esistenza è perfetta ora. Ma la mia, che pensavo sarebbe stata perfetta alla fine di questo viaggio, invece ha ancora molto su cui lavorare. Adesso tocca alla mia vita rimettersi in carreggiata, diventare perfetta cosi com’è. Per me stessa. È un po’ quello che mi ha sempre detto mia mamma: non lasciarmi andare, non trascurarmi. Solo avendo rispetto per me stessa potrò farmi rispettare dagli altri.
Ora, se io sono stata il motivo della sua rinascita, non può essere lui il motivo della mia? Le cose cambiano, è vero. Ho avuto un’amara lezione a riguardo. Ma da qualche parte bisogna iniziare.
Pensavo di essere tornata a casa. Invece il viaggio è appena iniziato.